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Il recupero e la pubblicazione delle opere di Ödön von Horváth

Alessandro Lusitani, editor di Castelvecchi, e Nino Muzzi, curatore e traduttore, ci introducono alla vita e le opere di Ödön von Horváth.

Una proposta editoriale

Horváth (Fiume, 1901-Parigi, 1938), scrittore e drammaturgo austriaco, è al centro di una delle più interessanti e preziose riscoperte di Castelvecchi, in una proposta editoriale che equivale di fatto a una prima presentazione al pubblico italiano, pressoché ignaro dell’autore. Il recupero e la pubblicazione, in una grafica di collana coordinata e studiata appositamente, comprende i quattro romanzi – uno del tutto inedito in Italia, Trentasei ore (1929), due fuori catalogo da tanti anni, L’eterno piccoloborghese (1930) e Un figlio del nostro tempo (1938), e il capolavoro Gioventù senza Dio (1937) – e, prossimamente in uscita, il meglio dei lavori teatrali – tra cui Storie del bosco viennese, Premio Kleist 1931. Il progetto si avvale delle ritraduzioni e di una ricchissima curatela di Nino Muzzi, da cui si riprende anche larga parte di questa nota.

Una commedia umana

Una volta Ödön von Horváth dichiarò di aver scelto il lavoro di scrittore perché era incapace di svolgerne altri. «Ho tentato ancora con tutta una serie di mestieri borghesi – ma non ne è venuto fuori niente di positivo –, evidentemente ero nato per fare lo scrittore». Una dichiarazione programmatica – come dire: “Non sono stato capace di entrare nella vita vera” – dove risiede la scelta di osservare il mondo con l’occhio del critico della società e del costume. Figlio di diplomatici, Horváth dovette spostarsi nell’Impero austro-ungarico fra Budapest, Belgrado, Monaco e Vienna, in un’ubiquità che lo rese un solitario osservatore del suo tempo. Partendo dalla critica all’ideologia dell’Austria Felix da cartolina illustrata con sottofondo di valzer, Horváth approda a poco a poco in un altro mondo, più grigio e più feroce ancora, che cova in sé tutti i germi del nazismo, in un ciclo di romanzi alla maniera di Balzac: una nuova “commedia umana”.

La critica sociale: il piccoloborghese

«Ho solo due cose contro cui scrivere: la stupidità e la menzogna. E due cose per cui combattere: la ragione e la sincerità». Tirar fuori da sé l’elemento autentico, e poi smascherare l’ideologia perbenista e ipocrita, cercando la verità e l’autenticità nel linguaggio. Il dramma sociale di Horváth è popolato di figure umane caricaturali e tragiche al contempo. Uomini e donne emblematici rappresentati del ceto medio, e in particolare Spießer: piccoloborghesi. Prigionieri dell’ideologia dominante, tra la Germania repubblicana di Trentasei ore e L’eterno piccoloborghese, dove la compagine sociale ha perduto la stabilità dell’epoca guglielmina, le figure son diventate più labili e incerte, prese fra l’ascesa economica e la caduta vertiginosa, e la Germania già nazista di Gioventù senza Dio e Un figlio del nostro tempo.

Il piccoloborghese, che a differenza dell’operaio è incapace di slanci solidali, interessa a Horváth proprio per il suo ruolo di annunciatore del fascismo. Aspirante all’ascesa economica e sociale, ma condannato all’incertezza sociale, al pericolo di cadere in una condizione ancor peggiore di quella del proletario che disprezza e maledice, a cui attribuisce tutte le colpe della crisi economica e di cui invidia la capacità di difendere il proprio salario con le lotte. Nella Repubblica di Weimar cresce il rimpianto per l’ideologia nazionalista del sangue e del suolo, della famiglia a dominanza maschile, della trasformazione dei cittadini in sudditi, dell’odio antioperaio e antisindacale, della nostalgia dei titoli onorifici, ormai logorati, e dell’odio antisemita e antibolscevico. Per il fatto di esprimere queste idee nella sua opera, a partire dal 1933 Horváth subisce una vera e propria persecuzione, finché nel 1936 viene dichiarato cittadino indesiderato e deve lasciare la Germania, rifugiandosi a Vienna. Il suo impegno si concentra sempre di più sulla lotta contro il nazismo ormai dilagante che non gli permetterà più di vivere nella sua Austria dopo l’Anschluss del 1938. Da questo momento fugge nelle varie capitali libere: Budapest, Zurigo, Amsterdam, e finalmente raggiunge Parigi per dare disposizioni all’editore francese di Gioventù senza Dio; nel rientrare all’albergo sugli Champs-Élysées viene colpito dal crollo di un albero strappato dal vento e muore sul colpo a trentasei anni.

Horváth, oggi

Accanto al suo valore di testimonianza di un’epoca, l’opera di Horváth viene riproposta oggi per la sua preminenza nella letteratura tedesca dell’esilio; per l’attualità di un racconto di fascismo e antifascismo in una società in crisi; per quella sorta di originalissimo “realismo magico” di cui è pervasa – in Horváth le cose parlano, parlano gli animali e le statue, parlano gli angeli e parla il futuro minaccioso in forma di vecchietta maligna, tra l’esigenza di ottenere effetti ironici e quella di caricare la scrittura di effetti mistici; per la sua forma, che sfugge al romanzesco in tutte le direzioni, e il suo linguaggio, a proposito del quale l’autore dice: «Mi si rimprovera spesso di essere troppo crudo, troppo disgustoso, troppo inquietante, troppo cinico e via di questo passo – però chi dice questo sorvola sul fatto che io non ho altra aspirazione se non quella di mostrare il mondo come purtroppo è».

Alessandro Lusitani e Nino Muzzi

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