Ágnes Heller: “Non c’è una vittoria definitiva del Bene così come non c’è del Male”
Un estratto dall’autobiografia di Ágnes Heller “Il valore del caso” (a cura di Georg Hauptfeld, traduzione di Massimo De Pascale).
Capitolo 5 “Guerra e persecuzione”
Intanto, nel mondo grande accadevano cose terribili. Nel 1941 l’Ungheria era entrata in guerra. I nostri soldati morivano nel conflitto contro l’Unione Sovietica. I membri ebrei dei cosiddetti “battaglioni di lavoro” venivano uccisi non solo dal nemico, ma anche dai loro stessi sadici ufficiali antisemiti. Tra i marescialli, spesso incolti, l’odio antisemita si mescolava a quello di classe verso i loro subordinati più istruiti. Quelli che sopravvissero e finirono in prigionia in Russia, alla fine furono gli unici giovani ebrei fuori Budapest a salvarsi. Le truppe tedesche occuparono l’Ungheria il 19 marzo 1944. Ricordo benissimo quel giorno. Era domenica. La mattina scoprimmo dell’invasione e io per quel pomeriggio avevo un biglietto per L’uccello di fuoco di Stravinskij. Dissi ai miei genitori: «Vado al concerto». Mia madre si infuriò, disse che ero pazza a voler andare mentre i soldati erano già alle porte della città. Io replicai: «Forse sarà l’ultimo concerto che ascolterò in vita mia». Mio padre rispose: «Vai, allora». Pensava che avrei dovuto approfittare più che potevo delle occasioni finché ero viva. Già all’epoca ero convinta che saremmo morti tutti. Una mattina mio padre scomparve e non tornò mai più. Il 14 aprile 1944, uscito di casa, fu caricato su un’auto della Gestapo e portato al loro quartier generale all’Hotel Majestic. La Gestapo lo consegnò alle autorità ungheresi che lo rinchiusero nel campo di internamento di Csepel. Là, insieme ad altri uomini, era costretto a lavorare. Uno di loro venne da noi e ci raccontò che mio padre era un uomo molto allegro e sempre di buon umore. Un altro ci portò delle lettere. Mia madre voleva dargli dei soldi, ma lui disse solo: «Sono un lavoratore organizzato!». Rimasi molto colpita. L’ultima lettera che ci arrivò era datata 20 giugno 1944. Era un biglietto che mio padre aveva gettato dal treno. Qualcuno l’aveva trovato, messo in una busta, comprato un francobollo e spedito. C’erano ancora persone così! Fu il suo ultimo segno di vita. Era fiducioso e credevamo che sarebbe sopravvissuto. Non si era mai ammalato e sopportava tranquillamente intere giornate di escursioni in montagna. Però morì ad Auschwitz, probabilmente il 16 gennaio 1945. Mio padre era un moralista ateo, ma in effetti era più religioso di tutte le persone che ho conosciuto da allora. Credeva che tutte le persone buone contribuissero con la loro pietruzza all’edificazione del Bene eterno. Nel suo testamento del 13 marzo 1938 lasciò solo il seguente messaggio: «Mia amata figlia Ági, ricorda che se sceglierai la strada dell’amore la tua vita sarà bella e piena di armonia. Occorre solo che tu abbia un po’ più di fortuna di tuo padre perché tutto vada bene. Nonostante tutto quello che è accaduto negli ultimi anni, non ho mai perso la fede che anche se il Male può prevalere per un breve periodo, alla fine il Bene sarà vittorioso. Tutte le persone buone danno il loro piccolo contributo alla vittoria finale del Bene. Conserva di me un ricordo amichevole e felice». Ho smesso di credere ormai da molti anni alla vittoria finale del Bene, ma sono anche convinta che si possa e debba fare del bene senza sperare in un esito positivo. Non c’è una vittoria definitiva del Bene così come non c’è neppure quella del Male.
Estratto da “Il valore del caso” di Ágnes Heller, Castelvecchi editore.
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