Autonomia differenziata, il Referendum
Giovedì 25 luglio il referendum per abrogare al legge sull’autonomia differenziata. In questo articolo tutte le informazioni relative al referendum, la scheda del libro di Stefano Fassina, “Perché l’autonomia differenziata fa male anche al nord” e la prefazione al libro di Pier Luigi Bersani.
Perché l’autonomia differenziata fa male anche al nord? L’ultimo libro di Stefano Fassina, economista ed ex viceministro dell’Economia e delle Finanze. Insieme ad Alessandro Pollio Salimbeni, vicepresidente nazionale ANPI, ha raccontato in un incontro in diretta streaming organizzato da Anpi Milano Provinciale, perché è necessario firmare per il referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata. Ricordiamo che si potrà firmare il 25 luglio nel corso delle Pastasciutte Antifasciste in tutta Italia. Scopri dove si svolgeranno su www.anpi.it/eventi o su www.istitutocervi.it.
Stefano Fassina
Perché l’autonomia differenziata fa male anche al nord
Prefazione di Pier Luigi Bersani
Collana Nodi – 154 pp. – 17,00€
Introdotta nella Costituzione nel 2001, ritornata al centro del dibattito pubblico dopo le richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e con il Disegno di legge Calderoli, l’autonomia differenziata divide la nazione. Avversata come “secessione dei ricchi”, il suo impatto sulla distribuzione di risorse pubbliche nazionali ha finora preoccupato prevalentemente il Mezzogiorno, ma i suoi contraccolpi fanno male all’Italia intera. Confindustria, Banca d’Italia,associazioni dell’artigianato e del commercio, cooperative, ANCI, organizzazioni sindacali e Conferenza episcopale italiana hanno lanciato allarmi rimasti inascoltati: l’autonomia differenziata penalizza lavoratori, famiglie e imprese non solo al Sud, ma anche al Nord. A partire dall’istituzione di una Camera delle Regioni, Stefano Fassina propone una strada alternativa per tutelare l’unità della Repubblica e impedire all’Italia di essere ridotta a «espressione geografica».
STEFANO FASSINA
Economista ed ex deputato della Repubblica, dal 2000 al 2005 ha lavorato al Fondo Monetario Internazionale. È stato responsabile Economia e Lavoro nel Partito Democratico guidato da Pier Luigi Bersani e poi viceministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Letta. Dal 2018 è presidente dell’associazione Patria e Costituzione. Per Castelvecchi ha pubblicato Il mestiere della sinistra. Nel ritorno della politica (2022).
La prefazione di Pier Luigi Bersani
Sin dalla definizione del programma per le elezioni del 2022, i partiti della coalizione di centrodestra a sostegno del Governo Meloni, in particolare Fratelli d’Italia e la Lega, hanno puntato a realizzare modifiche sostanziali alla nostra impalcatura costituzionale, quindi al funzionamento e alla qualità della nostra democrazia. Da un lato, il cosiddetto “presidenzialismo”, declinato poi in “premierato” attraverso modifiche apparentemente circoscritte alla nostra Carta fondamentale, ma di impatto profondo e radicale sui suoi complessi equilibri. Dall’altro lato, l’interpretazione estrema, dirompente, dell’autonomia differenziata attraverso l’approvazione di leggi ordinarie. Qui si procede, in primo luogo, con l’approvazione del “Disegno di Legge Calderoli”, una sorta di cornice, di legge-quadro, ma limitata in realtà a fissare soltanto procedure e sequenze, senza alcun principio guida per delimitare le materie trasferibili. Si arriva all’approvazione di tale decisivo testo con passaggi sostanzialmente blindati al Senato e alla Camera, nell’indifferenza dei gruppi politici della maggioranza, non soltanto alle proposte emendative delle minoranze, ma ai richiami delle massime istituzioni indipendenti, alle riserve delle rappresentanze economiche e sociali e alle osservazioni argomentate di un amplissimo arco dottrinale di costituzionalisti. Poi, approvata la “Legge Calderoli”, arrivano le leggi di approvazione delle “Intese”, scritte, in un rapporto bilaterale al chiuso dei palazzi, dal presidente del Consiglio e dal presidente della Regione richiedente «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Insomma, con il Parlamento confinato a “ratificare”, si attribuiscono competenze legislative esclusive alle Regioni, fino a ventitré materie, con il corredo di risorse crescenti tratte dal gettito fiscale erariale. Sarebbe sbagliato sottovalutare le iniziative in corso su entrambi gli ambiti, forma di governo e forma di Stato, quasi fossero una bandiera di propaganda destinata a fermarsi sugli scogli della realtà. Si tratta, invece, dell’intenzione vera, sancita da un patto politico, di creare una cesura nella vicenda dell’Italia repubblicana. Una rottura rifondativa. Infatti, cambierebbe radicalmente l’impianto della Repubblica parlamentare, fino a stravolgerlo. Si marginalizzerebbe la funzione del Parlamento e delle istituzioni di garanzia, in primis quella del presidente della Repubblica. A cascata, verrebbe anche compromessa la praticabilità degli obiettivi programmatici essenziali: la liberazione effettiva della persona dagli ostacoli che ne compromettono la realizzazione piena; la dignità del lavoro; la giustizia sociale. Insomma, la posta in gioco è altissima. Il lavoro di Stefano Fassina ci aiuta a prenderne consapevolezza. Prima di venire alle conseguenze dell’autonomia differenziata, è utile ricordare, almeno a grandi linee, il contesto nel quale si arrivò alle modifiche del Titolo V della Costituzione. È un fatto che nel 2001 ci fosse anche nel centrosinistra una confusa suggestione federalista e il tentativo di assorbire le pulsioni dissociative espresse dalla “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”. Tuttavia, ricondurre tutto a questa origine e a un’operazione strumentale non è corretto. Una discussione più precisa e matura potrebbe consentire di cogliere meglio le intenzioni del legislatore costituzionale e riconoscere il senso politico ed economico di differenziare le competenze legislative regionali su alcune materie in ragione delle condizioni specifiche, oggettive e riconoscibili di ciascun territorio. Per capirci, aveva e continua ad avere senso una normativa finalizzata a disegnare e attribuire potestà ulteriori e connesse risorse statali alla Sardegna sul trasporto marittimo. È evidente, invece, che non aveva e non ha senso mettere il governo nazionale nella condizione di dover attribuire la medesima funzione anche all’Umbria! Il riconoscimento della finalità autentica dell’innovazione costituzionale del 2001 avrebbe potuto, anzi dovuto, portare il legislatore ordinario, nelle legislature precedenti e ora, a predisporre una normativa-quadro equilibrata per la scrittura delle “Intese”, nel rispetto della centralità costituzionale del Parlamento. In altri termini, i vuoti lasciati aperti dalla Legge Calderoli si sarebbero dovuti riempire attraverso criteri e principi attuativi del modificato dettato costituzionale. Così, le richieste di differenziazione delle Regioni avrebbero incontrato limiti invalicabili e sarebbero state prese in considerazione soltanto quelle conseguenti a specificità oggettive e motivate in termini di maggior efficienza. È il punto più rilevante sollevato nelle audizioni parlamentari sul Disegno di Legge Calderoli da Banca d’Italia e dall’Ufficio parlamentare di Bilancio, citate da Fassina nelle pagine seguenti. Nell’assenza di un quadro razionale di limitazione delle materie trasferibili alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni, è innegabile l’effetto devastante della “riforma” in termini di ulteriore allargamento del divario tra Sud e Nord dell’Italia. È certamente un aspetto crucialissimo, ma partire da lì o fermarsi lì è palesemente riduttivo. Infatti, ancora prima degli effetti di redistribuzione territoriale e sociale delle risorse pubbliche, va evidenziato che la “riforma” ha conseguenze sistemiche distruttive. Non è un caso che il disegno dell’autonomia differenziata à la Calderoli non abbia nessun paragone possibile con esperienze federali o autonomistiche o di regionalismo asimmetrico costruite in altri Stati, in Europa e altrove. Qui, da noi, siamo al disegno di uno “Stato Arlecchino” in cui ciascuna Regione contratta competenze e funzioni à la carte, senza peraltro alcun controllo parlamentare nella fase di attribuzione di poteri e risorse e senza un presidio istituzionale centripeto nei rami alti, ossia senza una Camera delle autonomie territoriali, presente invece in ogni Stato ad assetto federale di qualsivoglia intensità. Inoltre, data la durata decennale dell’Intesa sottoscritta da governo nazionale e presidente di Regione e dato il potere di veto riconosciuto, di fatto, al governo regionale sulle revisioni, manca completamente flessibilità al sistema istituzionale, né vi sono efficaci barriere all’edificazione di un potente centralismo regionale a scapito dei Comuni. Anzi, come viene sottolineato nel primo capitolo, il passaggio in esclusiva alle Regioni del coordinamento della finanza pubblica regionale priva i Comuni di trasparenti, uniformi e condivisi meccanismi di partecipazione necessari al raggiungimento dei risultati previsti nelle leggi di bilancio e li espone all’arbitrio della Giunta regionale di turno. I sindaci, anche quelli del Nord, giustamente gelosi della loro autonomia, ne sono consapevoli? In tale quadro normativo, è agevole per Fassina documentare le conseguenze paradossali dell’autonomia differenziata in termini di maggiori oneri amministrativi e indebolimento competitivo che ne deriverebbero, non solo per l’Italia nel suo insieme, ma per ogni singola impresa, per i lavoratori e le lavoratrici, per le famiglie, tanto del Nord quanto del Sud. Oggetto dell’analisi esposta nel libro non sono posizioni caricaturali o intenzioni inventate, ma gli atti approvati negli ultimi anni dal Consiglio regionale di Veneto, Lombardia e, sia pure in dimensioni diverse, Emilia-Romagna, oltre che i pre-Accordi sottoscritti dai presidenti delle Regioni di “avanguardia” con il Governo Gentiloni e la “bozza concordata” da ciascuno dei tre con la ministra Stefani. Le conseguenze di tali atti, interamente praticabili nello spazio politico senza confini predisposto dalla “Legge Calderoli”, sarebbero davvero pesanti, innanzitutto sulle imprese. Si genererebbero su vari piani: sia là dove le politiche pubbliche pretendono una proiezione internazionale; sia là dove si alzerebbero confini di fatto insormontabili per necessarie operazioni di acquisti, produzioni e vendite ultra-regionali; sia per gli effetti dumping fra le Regioni; sia per l’aggravamento del groviglio normativo e burocratico; sia per l’impatto sul nostro elevato debito pubblico e, inevitabilmente, sul costo del credito e quindi sui redditi di lavoratori, lavoratrici e famiglie, oltre che delle imprese. Tali valutazioni, come riporta l’autore, sono presenti anche nelle audizioni sul Disegno di Legge Calderoli lasciate agli atti dalle principali associazioni di datori di lavoro, piccole imprese, lavoratori autonomi e sindacati. Dovrebbero far aprire gli occhi a quanti sono rimasti finora indifferenti o addirittura speranzosi di raccogliere benefici in termini di migliori servizi o minore imposizione fiscale. A fronte della deriva che ho appena ricordato, si invoca ritualmente l’arrivo, dopo due decenni di vana ricerca, dei cosiddetti “LEP”, i Livelli Essenziali delle Prestazioni. È importante che Fassina, anche qui con il supporto delle osservazioni della Banca d’Italia e dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, oltre che delle analisi più tecniche e semiclandestine della stessa Commissione Cassese, ne documenti la vera funzione: fare da foglia di fico alla reale natura dell’operazione autonomia differenziata. Del resto, chiunque abbia un po’ d’esperienza in queste materie e non sia quindi un acchiappanuvole sa bene che i LEP, così come vengono descritti dalla propaganda, sono una missione impossibile, tanto dal punto di vista concettuale, quanto da quello finanziario. Per quanto ho sostenuto finora, si comprende perché l’autonomia differenziata non conviene neanche al Nord. Perfino l’effetto di ulteriore allargamento del divario territoriale rimbalza al Nord. Infatti, dati alla mano, tutte le volte che il divario Nord-Sud cresce, cresce anche il divario fra Nord e regioni europee. I numeri che trovate nella Tabella 3 sono eloquenti: il PIL pro capite delle Regioni settentrionali arretra quanto e più di quello delle Regioni meridionali. Dovrebbe essere intuitivo. Esiste una ovvia reciprocità, una chiara interdipendenza, pur nelle differenze, fra le diverse aree del Paese. Bisogna fermare questa deriva, tornare alla ragione e fare qualcosa di serio. C’è un fondamento autonomistico nel nostro sistema istituzionale e politico. C’è anche nella nostra storia pre- e post-unitaria. Lo conferma il dibattito per la scrittura delle norme sulla forma di Stato, svolto all’Assemblea costituente. Nel primo capitolo del libro, Fassina riproduce alcuni passaggi dei nostri più autorevoli “padri”, espressione dell’intero spettro parlamentare. Sarebbe, quindi, assurdo e deleterio anche soltanto tentare di arretrare su improbabili centralizzazioni ministeriali. La sussidiarietà è un valore imprescindibile. Certamente, le autonomie territoriali (Regioni, Province e Comuni) evidenziano problemi, inadeguatezze, irrazionalità e difficoltà nel rendersi funzionali ai tempi nuovi. Sono urgenti interventi di razionalizzazione di competenze e risorse. Il dramma, tuttavia, è che si è proceduto e si vuole continuare a procedere sempre a compartimenti stagni. Si affronta la questione, per sua natura sistemica, mettendo mano in modo dissociato ora a questo ora a quel versante delle istituzioni di governo della Repubblica: per una fase, ci si occupa di Comuni; per un’altra, di Province; per un’altra ancora, di Regioni. Non può funzionare. Non può esistere una indispensabile messa a punto del sistema delle autonomie senza uno sguardo che consideri queste ultime nell’insieme e cioè nelle relazioni fra loro e fra loro e lo Stato nazionale. Tra tante bicamerali che si improvvisano, è mancata e continua a mancare quella più importante. Quella, cioè, che dovrebbe procedere a una rilettura del sistema delle autonomie. Senza uno sforzo del genere le manderemmo alla deriva fra impulsi e velleità di centralizzazione e fughe in avanti disgregatrici. Attenzione anche ai baratti politici. L’elezione diretta del capo del governo non compenserebbe la perdita di regia e controllo nazionale di materie ed entrate fiscali essenziali. Andremmo, al contrario, tutti a fondo, in una fase storica dove ritorna necessaria e decisiva la funzione di governo dell’economia. È finita la stagione del fai da te dei mercati. L’illusione del fai da te delle Regioni accentua questa deriva. Fassina si sofferma, infine, su questioni crucialissime. Si riferiscono all’orizzonte europeo, a policy e riforme rivolte all’allentamento dei “vincoli interni” e dei “vincoli esterni”: condizionano e incidono anche sulle Regioni del Nord. Entrano in tensione. Sono questioni e proposte decisive per invertire il declassamento del Nord. Meriterebbero davvero un confronto serio e impegnativo. Invece, segnalano la distanza siderale fra quello che si dovrebbe discutere e quello che siamo costretti a discutere.
Estratto dall’introduzione di Pier Luigi Bersani al libro “Perchè l’autonomia differenziata fa male anche al nord” di Stefano Fassina (C) 2024 Lit edizioni 2024